Andiamo a incominciare

Basta fare un giro al mercato.
Già gli occhi si riempiono di colori, colori di pomodori e peperoni, caldi, rossi e carnosi come certe labbra che si offrono senza vergogna, ma anche caldi come il giallo di pani appena sfornati, sotto la cui crosta si indovina una tenerezza nuova.
E la verdura? ci offre tutte le tonalità dei verdi, che raccontano sommessamente di prati e di orti, innaffiati da uomini tranquilli in maniche di camicia, durante silenziosi tramonti.
Come si fa a non amare il cibo? Semplice, basta non amare gli umani.

sabato 7 gennaio 2012

KOS


Ecco, per tutti i miei lettori, il primo post del nuovo anno, che non è di cucina. 
L'ha scritto il mio alter ego, che a torto si ritiene un letterato, sia pur incompreso: l'ha "covato" per qualche mese e l'occasione della vacanza di fine anno gli ha fornito quella mezza giornata di solitudine necessaria per  lucidare le idee, sedersi davanti alla tastiera e iniziare a raccontare, con amore, naturalmente....

"Era stata molto dura ottenere un posto di capopartita in quel resort dell'isola di Kos. C'era riuscito tramite quel suo amico, Aldo, a cui, nella vita precedente, aveva fatto dei piccoli favori, tutti tesi a confermare una grande amicizia, e che al momento buono era stata parimenti ricambiata.
Ciononostante aveva dovuto superare una selezione abbastanza dura, motivo di stress: non era più un ragazzo, e questo era senza dubbio un handicap rispetto a certi aitanti giovanotti, bravini, per carità, ma tanto look e poca sostanza, specie in cucina.
Aveva presentato il suo curriculum, peraltro discreto, e aveva dovuto impegnarsi per un periodo di lavoro piuttosto lungo.
Solo, in quell'isola del Dodecaneso, sia pur a quattro kilometri dalla costa turca, non era ancora certo di avere fatto la scelta giusta.
Non era stata una fuga, del resto non aveva legami, aveva un buon lavoro che gli forniva uno stipendio di tutto rispetto e qualche microsoddisfazione ma la cucina era stata troppo esigente: gli aveva chiesto di dedicarsi solo a Lei. Anche se lasciare tutto gli aveva procurato grande paura il desiderio di cambiare vita, e di fare “davvero” il cuoco, aveva finalmente prevalso. 
Tante erano che cose che aveva dovuto lasciare, e l'andare a stare in un'isola l'aveva anche obbligato a scegliere, con grande precisione, ciò che era veramente necessario portarsi dietro, e lasciarsi dietro orpelli di varia entità e natura.
Del resto l'isola era incantevole, e presto ogni nostalgia si sciolse in quel clima ricco di natura e di storia.

Il suo Chef, come tutti gli Chef che aveva conosciuto, era assillato dalla paura di perdere il potere, quel piccolo potere che ha ogni Chef, il potere di comandare un certo numero di persone, e il suo comportamento era più dettato dalla paura dell'insubordinazione che dal desiderio di costruire un squadra, una squadra che funzionasse come quegli orologi svizzeri che una volta lo stato italiano dava in dotazione ai capistazione.
Ma Michele lo aveva già ben inquadrato, motivo per cui il suo atteggiamento era stato di puro servilismo, quello che del resto era a lui richiesto.
Gli era stata affidato il ruolo di chef poissonier, che, visto che il resort era in un'isola, era comunque un ruolo di grande impegno e responsabilità: si sarebbe visto nel volgere dei giorni come sarebbe andata, ma lui non aveva nessuna paura: sapeva come cavarsela.
La cucina non era niente male, attrezzata piuttosto bene e con una splendida macchina di cottura a induzione. Anche la brigata era stata una piacevole sorpresa, tutti colleghi e colleghe più giovani di lui ma aperti e disponibili, che lo avevano accolto non come un vecchietto ma come un fratello maggiore, e questo era stato il suo più bel regalo di arrivo.
Nella sua partita aveva due commis di venti e di venticinque anni, due giovanotti quasi belli come i bronzi di Riace, Gheorghiòs e Nicòlaos, disponibili e volenterosissimi ma impreparati a decidere qualsiasi cosa in prima persona. Li avrebbe addestrati lui, che non si preoccupassero.
Anche la sua sistemazione era buona. Aveva ben capito che non poteva aspettarsi una terrazza sul mare ma comunque la sua camera non era troppo piccola, e la cosa che a lui interessava di più, il wi-fi, era perfetto: grande velocità, 54 Mbps. Era la sua vera finestra sul mondo, vedere senza essere visti, parlarsi senza toccarsi, non dover chiedere il permesso a nessuno.

Scese giù per il servizio della sera. Aveva da preparare “soltanto” 330 cocktail di gamberi e 120 aragoste alla catalana, ma non era il caso di preoccuparsi: la struttura e il personale che aveva dietro di sé avrebbero garantito un perfetto risultato. Del resto quanto volte aveva allestito pranzi, per amici e non, completamente da solo, anche per una trentina di persone. Era solo una questione di organizzazione. Andò a vedere i crostacei: erano davvero molto belli e i suoi cocktail sarebbero stati perfetti. Affidò ai due ragazzi i compiti da eseguire e la sequenza con cui farli e iniziò a guardarsi intorno.
Erano solo quarantotto ore che era lì ma sentiva salire un antico desiderio.

Adocchiò, nella folla della brigata, una donna dai lunghi capelli corvini, da tempo non pettinati, e dagli occhi altrettanto neri, così neri da non potervi distinguere la pupilla dall'iride, dall'espressione aggressiva, non più giovanissima ma di età comunque indefinibile, forse sulla quarantina, forse meno. Gli sembrò alta quasi come lui, ma i capelli probabilmente lo ingannavano. La divisa e il lavoro che stava facendo raccontavano il suo ruolo, quello di plongeuse, il più faticoso.
Sulle prime non capì bene se fosse una “bella” donna o solo una donna “interessante”: le braccia gli ricordavano un po' la Madonna del Tondo Doni ma la vita era aggraziata, sfumante in due fianchi di tutto rispetto. Il seno, non piccolo, non era per niente pendulo, e lasciava immaginare due capezzoli fieramente rivolti in avanti.
Chissà cosa c'era dietro e cosa dentro quella donna, che emanava un'animalità incredibile, fiutabile a lunga distanza.
Con la scusa di controllare come lavoravano i ragazzi, e dando loro qualche piccola dritta per far prima e meglio, chiese loro chi fosse la donna. Gli risposero che sapevano soltanto che si chiamava Achiropìta, e che solo da pochi giorni lavorava nel resort. Michele, che aveva fatto il liceo classico, sapeva che quel nome si riferiva a un ritratto “miracoloso” della Vergine, “non dipinto da mano umana”. Di più non riusci a sapere.
Si concentrò sul servizio, che fu, insieme naturalmente al resto delle portate, veramente splendido. Si riservò una mezza aragosta e convenne fra sé e sé, che era semplice e squisita, anche se lo Chef la definì soltanto discreta. Ma non c'era niente di cui stupirsi, sarebbe stato strano il contrario.
Quella sera, verso l'una, tornò nella sua cameretta, stanco, soddisfatto e soprattutto incuriosito. Come sempre succedeva faticò parecchio a prendere sonno, uno dei tanti segni di invecchiamento che lo torturavano.
La mattina dopo, avendo un'oretta libera, girò un po' per l'isola, cercando lì in giro qualche posticino tranquillo e riparato, per potersi fare un bagno in pace. Era giugno e non c'era ancora molto caldo, se mai su un'isola possa mai esserci quel caldo che si sente in continente. L'acqua era meravigliosa, e il fondo era visibile con nitore, e bellissimo. Un momento di pace col mondo come quello meritava una sigaretta, e che diamine! Se la accese, e anche se non era una Marlboro,la assaporò con piacere. “Lo so che fa male”, pensò.
Arrivò al lavoro con dieci minuti di anticipo, appena in tempo per vedere, non visto, lo Chef che, stupido aguzzino, si era imbarcato in una violenta reprimenda contro Achiropìta. Michele non capì per quale motivo, era troppo lontano. Sentiva solamente delle grida, e vedeva lo Chef brandire dei coltelli evidentemente non troppo lucenti. La donna stava zitta ma dagli occhi uscivano certe fiamme soltanto invisibili. Era ovvio che avesse un bisogno estremo di lavorare, altrimenti non sarebbe rimasta un minuto di più lì, e lo Chef si sarebbe trovato un orecchio in meno.
Dopo la sfuriata Michele si avvicinò alla donna, sentendo che quella avrebbe potuto essere una buona occasione per stabilire un contatto. Fra l'altro lui era un capopartita, ben riconoscibile nella sua divisa. “Potenza della gerarchia”, pensò.
“Non te la prendere, è solo un cretino. Cosa avresti combinato?”
La donna lo guardò con aria fiera ma ancora impaurita. “Dice che non ho lavato bene i coltelli, ma con questo sapone è il massimo che riesco a fare”. Achiropìta aveva sentito, con grande facilità, il passaggio di un fluido di “sim-patia”, che poi è il “soffrire insieme”, e la sua risposta era stata a un tempo spiegazione e richiesta di condivisione.
Potenza della comunicazione non verbale! Michele incominciò, sommessamente, a raccontarsi, con tutta la naturalezza di cui era capace, vista la situazione, e stette lì cinque minuti ancora; lei, continuando a lavare e china nella plonge, ascoltò, e non sembrava infastidita, solo ancora un po' sospettosa.
Michele si congedò con la scusa del lavoro, semplicemente. Riuscì a rubarle un mezzo sorriso, più degli occhi che della bocca, ma se ne stette, anzi, ne fu parecchio contento.
Il servizio del mezzogiorno e quello della sera andarono bene, come sempre la qualità della cucina dipende dall'eccellenza delle materie prime e lì erano veramente eccellenti. Ma la testa di Michele era altrove, affascinata da quella donna, mezza Giunone e mezza Minerva, e anche mezza Afrodite, se ne convinse.
Chissà cosa nascondeva dietro quegli occhi e soprattutto chissà che impressione lui le aveva suscitato.
Dopo una settimana di saluti cortesi ma formali, dovuti anche alla differenza di orari di lavoro, un pomeriggio Michele, nel suo giorno di festa, la aspettò alla fine del turno, soprattutto per vederla in abiti “civili”. Realizzò che era più bassa di lui, e che avrebbe potuto agevolmente passarle il braccio dietro la vita.
Achiropìta aveva un abitino di cotone stampato, di un colore leggermente più scuro del lillà, quasi un violetto, su cui spiccavano certe apine nere, variamente orientate. Il decolletè era ben esposto ma senza nessuna volgarità e l'orlo del vestito era appena sopra il ginocchio. Un vestitino estivo, non trasparente ma sottile, da cui si poteva facilmente capire ciò che vi era di sotto.
Era l'ora dell'happy hour e le disse, con una titubanza che solo lui sentì: “Verresti a bere qualcosa con me?”. Riuscì a sorprenderla e a imbarazzarla, anche se la sua carnagione olivastra gli impedì di vedere l'arrossimento. Non se lo sarebbe aspettato. Dopo un solo attimo di riflessione rispose, decisa, “Sì, ma alle sette devo andare a casa”. “Non c'è problema, anche io più tardi ho un impegno”, mentì Michele, con grande naturalezza.
Trovarono, a un dipresso dalla strada principale, un'attività commerciale pomposamente autodefinitasi “bar”, corrispondente a tre tavolini disposti in mezzo a due case, ciascuno con due seggiole impagliate, ma fra quelle due case c'era uno scorcio di mare talmente bello che non c'era proprio nessun bisogno dell'aperitivo.
Ma bevvero lo stesso, lei ordinò un bicchiere di Retsìna, lui, anche per farsi coraggio, un Metaxa col ghiaccio.
Entrambi erano affascinati dalla vista, soprattutto lei, che probabilmente non era nativa di Kos. Dopo qualche minuto, intenti a bere, Michele disse: “Allora, raccontami la tua vita in quest'ora che ci resta”. “Non è una gran bella vita da raccontare”, rispose lei. “E neanche lunga. Lavoro con quel personaggio orribile perchè non posso farne a meno. Sono di Bodrum, l'antica Alicarnasso e ho due figli, che ho dovuto affidare a mia madre. Devo mantenerli tutti e tre con il mio lavoro e, ti assicuro, alla fine del mese i soldi non mi bastano mai. Ma non sarà sempre così. Faccio la sguattera ma sono molto brava a fare il pane, me lo ha insegnato il fratello di mio padre. Quando potrò, aprirò un negozio soltanto mio, e venderò il miglior pane di tutta la città”.
Michele ascoltava, e beveva parole e Metaxa, avidamente. Gli occhi neri di lei si agitavano in continuazione e da essi sprigionavano la speranza e l'entusiasmo di un futuro più bello.
Era bello chiaccherare in quell'angolo tranquillo, con la luce della sera che scemava a poco a poco, e parimenti le luci dell'isola si accendevano una ad una.
Entrambi in cuor loro desideravano che il tempo rallentasse, e che quei momenti, dolcissimi, durassero almeno tutto il resto della loro vita. Quando furono le sette, marcate dal suono di una campana in lontananza, nessuno dei due vi fece caso, perchè in quel momento erano così vicini, e così bisognosi di avere qualcuno vicino, che non volevano interrompere quella piccola magìa.
Fu quindi naturale per Michele chiedere all'oste di portare qualcosa da mangiare, e per Achiropìta, bellezza non dipinta da mano umana, accettare quel muto invito a pranzo.
Dimenticò per un'oretta di essere cuoco, e le dolmàdes, involtini di foglie di vite, e la moussakà furono ancora meglio delle sue aragoste.
Quando fu troppo tardi, anche per quel bar, si congedarono con tanti ringraziamenti e una mancia principesca, per quell'oste che era stato il loro involontario Cupido.
Ritornarono al resort, abbracciati, come lui si era figurato solo qualche ora prima, e lei, sentendo il suo braccio stringerla forte, ne provava una sensazione di grande pace.
Trascorsero la notte insieme e Michele capì compiutamente la bellezza di affondare la testa fra i suoi lunghi capelli. Sopratutto riuscì, come mai era successo prima, a svuotare completamente la sua testa, a non pensare più a nulla se non a sentire il battito del cuore di lei, divenuto sincrono al suo. Lei non aveva mai incontrato un uomo così, del quale anche solo l'abbraccio le colmava il cuore.
Non fu una notte da diciottenni, fu una notte così dolce che a diciotto anni non si riesce neanche a immaginare.
La mattina presto, impaurita dall'essersi donata così totalmente a un estraneo, ma che estraneo non si era dimostrato, e per così dire “chiamata” dalla brezza di terra, Achiropìta si vesti in fretta e, senza neanche un bacio, fuggì nelle viuzze di Kos, spaventata dalla felicità.
Anche lui era sveglio ma fece finta di dormire. In quel momento non avrebbe trovate le parole, se mai ve ne fossero state".

5.1.2012




4 commenti:

  1. Bravo, bravissimo il mio caro amico lontano e 'testimone di Genova', come sei ormai conosciuto tra i miei amici locali.
    Se nella cucina ci metti entusiamo e passione, qui ci metti anche tanto talento.
    Mi piacerebbe tanto continuare a leggere le cose che scrivi e, anche se so che sono privilegiata a leggerle per prima...., vorrei che scrivessi più spesso.
    E se apri un blog di scrittura, non ti preoccupare che non muori, anzi, avrai uno stimolo in più per scrivere, e solo un'ora di meno per il sonno.
    Un abbraccio

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  2. Bel racconto....che sia di fantasia o meno poco importa...è molto vero e trasmette emozione. Bravo!!! a presto leggerti ancora...

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  3. Una sorprendente lettura dalle straordinarie attenzioni al bello che la vita può offrire, piccoli particolari che regalano momenti di emozione e aiutano a stare meglio... all'improvviso.

    Complimenti!

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  4. Grazie per tutti i complimenti!
    Ma non è finita..... Achiropìta sta girando, a vuoto, per Kos, cercando di capire cosa sia successo.....

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